LA CORTE DEI CONTI 
 
    Ha  pronunciato   la   seguente   ordinanza   nel   giudizio   di
responsabilita' iscritto ai n. 57750/R del  registro  di  segreteria,
promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di B.N.M., F.A. e V.
C. come in atti generalizzati e domiciliati. 
    Udite, nella pubblica udienza del 14 ottobre 2009,  la  relazione
del Primo referendario dr.ssa Paola Briguori  e  le  conclusioni  del
pubblico ministero, in persona  del  sostituto  procuratore  generale
dr.ssa Letizia Dainelli. 
    Non costituita la parte convenuta; 
    Esaminati gli atti ed i documenti di causa. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con citazione depositata in data 26 febbraio 2009, preceduta
dall'invito a dedurre di cui all'art. 5 del d.l. 15 novembre 1993  n.
453, convertito,  con  modificazioni,  nella  legge  n.  19/1994,  la
Procura regionale presso questa Sezione conveniva in giudizio B.N.M.,
F.A. e V.C. per sentirli condannare a titolo di danno all'immagine al
pagamento (rispettivamente,  il  primo  nella  percentuale  del  40%,
mentre secondo ed il terzo, ciascuno, in quella del 30%),  in  favore
del Ministero dell'interno - Dipartimento della  Pubblica  Sicurezza,
della complessiva somma di € 50.000,00 o di quella  diversa  ritenuta
di giustizia, oltre a rivalutazione  monetaria,  interessi  legali  e
spese di giudizio. 
    2. - Riferiva la Procura che i convenuti, tutti agenti della P in
servizio  presso  la  Stazione  Ferroviaria  di  Firenze,  si   erano
macchiati di gravi  crimini,  circostanza  che  aveva  provocato  una
notevole lesione all'immagine dell'amministrazione  di  appartenenza,
come poteva evincersi anche dalla vasta risonanza che l'evento  aveva
avuto nella stampa focale e nazionale. 
    Risultava, in particolare, che, con sentenza del Tribunale penale
di Firenze, sezione Prima, n. 3115 del 19 maggio 2004, confermata nei
successivi gradi di giudizio (sentenza 22 novembre 2006 n. 2671 della
Corte d'appello di Firenze; sentenza 9 gennaio 2008 n. 16 della Corte
Suprema di Cassazione), costoro erano stati condannati del delitto di
cui al capo di imputazione A) «di cui agli artt. 60-bis, 110. 81 cpv.
c.p. perche', in concorso tra loro... con piu' azioni esecutive di un
medesimo disegno criminoso, mediante abuso  dei  poteri  inerenti  la
funzione di agenti della Polizia di Stato in servizio presso il Posto
P di Campo di Marte, quindi con abuso di atutorita',  in  particolare
arbitrariamente prelevando omissis in una via adiacente Piazza  della
Stazione di Santa  Maria  Novella,  e  con  minaccia  consistita  nel
prospettarle  il   rischio   di   una   denuncia   per   adescamento,
costringevano la omissis a  consecutivi  rapporti  sessuali  di  tipo
orale nei locali dell'Ufficio P, di Campo di Marte»; nonche' il  solo
B. anche del delitto di cui al capo di imputazione B)  «di  cui  agli
artt. 479 e 61 n. 2 cp., perche', al fine di occultare il  reato  sub
A), attestava falsamente, nella relazione di servizio del 22 febbraio
2000, di aver fermato omissis alle ore 2:59 nel sottopassaggio  della
Stazione ferroviaria di Campo di Marte, mentre la  stessa  era  stata
prelevata nella zona della Stazione di Santa Maria Novella». 
    Secondo il requirente, costoro avevano tenuto una  condotta  che,
oltre ad essere manifestamente espressione di  una  grave  violazione
dei modelli comportamentali che sia l'Amministrazione sia il pubblico
cittadino si attendono  da  soggetti  appartenenti  alla  Polizia  di
Stato, si'  connotava  per  la  sua  particolare  riprovevolezza.  La
gravita' dei fatti illeciti commessi dal B.M.  dal  F.  e  dal  V.  e
l'appartenenza  degli  stessi  alla  Polizia   di   Stato   avrebbero
determinato sconcerto, sfiducia e discredito nell'opinione pubblica. 
    I convenuti, tutti detenuti, non si costituivano. 
    3. - All'udienza del 14 ottobre 2009 la Procura,  prendendo  atto
del ius superveniens di cui all'art.17 comma 30-ter,  della  legge  3
agosto 2009 n. 102 di conversione del decreto-legge 1° luglio 2009 n.
78, modificata dall'art. 1 comma 1  lettera  c  del  decreto-legge  3
agosto 2009  n.  103,  convertito  nella  legge  3  ottobre  2009  n.
141,concludeva  eccependo  la   legittimita'   costituzionale   della
suddetta norma, qualora il Collegio non avesse ritenuto  di  accedere
ad  una  sua  interpretazione  diversa  da  quella   che   comportava
l'intervenuta preclusione per il P.M.  contabile  di  rivendicare  il
danno all'immagine per delitti quali quelli per i quali  i  convenuti
erano stati giudicati  penalmente  responsabili  e  avesse  ritenuto,
quindi, che l'azione con la quale era stato  instaurato  il  presente
giudizio  fosse  divenuta  carente   (carenza   sopravvenuta)   della
possibilita' giuridica o comunque  della  legittimazione  attiva  del
pubblico ministero contabile per azionare la pretesa risarcitoria per
danno all'immagine  cagionato  dalle  condotte  di  cui  ai  capi  di
imputazione.   Secondo   la   Procura,   l'illegittimita'   sollevata
riguardava il contrasto con gli articoli 77, 3, primo comma, 24 e 97,
primo comma, della Carta costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - In n via preliminare il Collegio  ritiene  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
sollevata  dal  Procuratore  regionale  in  ordine  all'art.17  comma
30-ter,  della  legge  3  agosto  2009  n.  102  di  conversione  del
decreto-legge 1° luglio 2009 n. 78, modificata dall'art.  1  comma  1
lettera c del decreto-legge 3 agosto 2009 n.  103,  convertito  nella
legge  3  ottobre  2009  n.  141,  nella  parte  in  cui  limita   la
giurisdizione della Corte dei conti sul danno  all'immagine  ai  soli
casi e nei modi previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97. 
    1.2.  -  Sulla  rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Come esposto in fatto, la Procura regionale ha citato in giudizio
gli odierni convenuti per sentirli  condannare  al  risarcimento  del
danno all'immagine,  in  quanto  e'  risultato  con  sentenza  penale
irrevocabile che costoro si erano  resi  responsabili  del  reato  di
violenza sessuale e di falsita' ideologica in atti pubblici. 
    Ad  avviso   del   Collegio,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  sollevata  risulta  rilevante  nel  giudizio  a  quo,
poiche' questo  non  puo'  essere  definito  indipendentemente  dalla
risoluzione della stessa, sulla quale influisce inevitabilmente,  per
la sua formulazione, il citato  articolo  17  comma  30-ter,  secondo
periodo, che dispone, appunto, in materia di risarcibilita' del danno
all'immagine della pubblica amministrazione. 
    Detta norma prevede infatti che:  «Le  procure  della  Corte  dei
conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno  all'immagine
nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 dalla  legge  27  marzo
2001, n. 97. ». 
    La lettera della norma porta a ritenere, senza tema di  smentita,
che il legislatore, nell'attribuire una limitata azione alle  Procure
erariali in tema di danno all'immagine della p.a., abbia  inteso  per
un verso inteso confermare la Corte dei conti quale giudice  naturale
di tale tipologia di danno, ma per altro verso nei soli  casi  e  nei
modi previsti dall'art. 7  dalla  legge  27  marzo  2001,  n.  97  e,
pertanto, nei soli casi in cui il comportamento causativo  del  danno
all'immagine rientri nelle fattispecie delittuose di cui  al  capo  I
del titolo II del libro secondo del codice penale  (reati  contro  la
pubblica amministrazione), accertate con sentenza irrevocabile. 
    Ogni altra opzione interpretativa collide  evidentemente  con  il
dato letterale, in quanto il richiamo all'art. 7 della legge 27 marzo
2001, n. 97 appare  inequivocabile,  essendo  ivi  previsto  che  «la
sentenza irrevocabile  di  condanna  pronunciata  nei  confronti  dei
dipendenti indicati nell'art. 3 per  i  delitti  contro  la  pubblica
amministrazione previsti nel capo I del titolo II del  libro  secondo
del codice penale e' comunicata al competente  Procuratore  regionale
della  Corte  dei  conti  affinche'  promuova  entro  trenta   giorni
l'eventuale procedimento di responsabilita' per  danno  erariale  nei
confronti del condannato...». 
    E poiche' l'ultimo periodo dell'art.  17,  comma  30-ter,  citato
prevede che «Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere
in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo  che
sia stata gia' pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e'
nullo e la  relativa  nullita'  puo'  essere  fatta  valere  in  ogni
momento, da chiunque vi  abbia  interesse,  innanzi  alla  competente
sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine
perentorio di trenta giorni dai deposito della richiesta», ad  avviso
del Collegio ne discende che il legislatore ha inteso sanzionare  con
la nullita', rilevabile da chiunque vi  abbia  interesse,  anche  gli
atti (processuali) di citazione per danno all'immagine. 
    Il problema e' allora quello di stabilire, nei casi - come quello
di che trattasi - in cui  la  citazione  e'  stata  emessa  dal  p.m.
contabile,  prima  dell'entrata  in  vigore   della   citata   norma,
contestando  un  comportamento  causativo   di   danno   all'immagine
costituente di reato, ma un  reato  diverso  dai  delitti  contro  la
pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del  libro
secondo del codice penale, quale sia l'esito del  processo  contabile
celebrato dopo l'entrata in vigore anzidetta. 
    Escludendo l'esito rappresentato dalla declaratoria  di  nullita'
(impedito  dalla  mancanza,  nel  caso  di  specie,  della   relativa
istanza), quanto alla citazione appaiono tecnicamente  possibili,  ad
avviso   del   Collegio,   soltanto   due   opzioni:   quella   della
inammissibilita' per difetto di  giurisdizione,  oppure,  forse  piu'
precisamente, quella di improcedibilita' per  (sopravvenuto)  difetto
di giurisdizione. 
    In sostanza,  nonostante  la  carenza  di  coordinamento  tra  le
diverse   disposizioni    previste,    dovuta    verosimilmente    ai
rimaneggiamenti che  si  sono  succeduti  sul  testo  originario  del
decreto legge, non v'e' dubbio che il citato art. 17, comma 30-ter e'
una norma sulla giurisdizione. 
    Cio' in quanto non si puo' negare che alla stregua  dei  principi
generali, una volta esercitata l'actio damni,  la  valutazione  sulla
conformita'  a  legge  della  domanda  di  risarcimento   del   danno
all'immagine  dell'amministrazione  pubblica   deve   necessariamente
risolversi nell'accertamento della  sussistenza  della  giurisdizione
contabile, talche'  la  pronuncia  deve  assumere  veste  formale  di
declaratoria di affermazione o  di  difetto  di  giurisdizione  della
Corte dei conti. 
    Orbene, con riferimento al giudizio in corso, la citazione  della
Procura regionale era stata depositata il 26  febbraio  2009,  quando
ancora era possibile per il giudice contabile procedere all'esame nel
merito della domanda risarcitoria, non essendo ancora applicabile, in
quanto non ancora vigente, la disposizione  in  esame.  L'entrata  in
vigore dell'art. 17,  comma  30-ter  ha  di  fatto  pendente  iudicio
bloccato l'azione di danno,  dovendo  -  come  detto  -  il  Collegio
dichiarare il proprio difetto di giurisdizione nel giudizio a quo. 
    Di qui l'evidente rilevanza e pregiudizialita' della questione di
legittimita' costituzionale nei giudizio a quo. 
    1.3. -  Sulla  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita' sollevata. 
    A  giudizio  del   Collegio,   sussistono   forti   dubbi   della
legittimita'   costituzionale    della    disposizione    richiamata,
concordemente  a  quanto  manifestato  in  udienza  dal   procuratore
regionale. Dal che della relativa questione deve essere investita  la
Corte costituzionale per una pronuncia risolutrice, poiche' la stessa
sembra porsi in contrasto con l'art. 3 primo comma, l'art. 24,  primo
comma, e l'art. 97 primo comma. 
1.3.I. - Violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione, 
    Come e' noto, l'art. 2 della Costituzione riconosce e  garantisce
i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalita', e quindi, tra di essi,  il
diritto  all'immagine,  sia  delle  persone  fisiche  che  di  quelle
giuridiche,  private  e  pubbliche.  La  copiosa  giurisprudenza  del
giudice  contabile,  confermata  anche   dalla   Suprema   Corte   di
cassazione, aveva  gia'  teorizzato  la  configurabilita'  del  danno
all'immagine della pubblica amministrazione per le ipotesi di gravi e
riprovevoli condotte poste in essere da dipendenti ed  amministratori
pubblici infedeli  ai  danni  dell'amministrazione  di  appartenenza,
attribuendo la relativa giurisdizione alla Corte dei conti. 
    Ed in vero, il citato art. 17, comma 30-ter ha  avuto  l'indubbio
pregio di aver  dato  riconoscimento  normativo  a  tale  consolidato
orientamento giurisprudenziale, prescindendo tra l'altro anche  dalla
natura del danno all'immagine, su cui la giurisprudenza tanto si  era
soffermata, ma nei contempo ha introdotto una  limitazione  alla  sua
risarcibilita', in quanto circoscritta nei soli casi e modi  previsti
dall'art.7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. 
    Se  questa  sembra  essere  la  voluntas  legis  che  emerge  dal
richiamato intervento normativo, ne consegue che il  legislatore  del
2009 ha prodotto un  grave  vulnus  alla  tutela  di  questo  diritto
costituzionalmente protetto, avendo di fatto creato una  zona  franca
nell'ambito della quale non e' ammesso piu'  risarcimento,  quella  -
peraltro molto ampia - dei reati non disciplinati nel capo richiamato
dall'art. 7 della legge n. 97/2001. In buona sostanza, il legislatore
ha, da una parte, espressamente devoluto  alla  Corte  dei  conti  la
giurisdizione in materia, mentre, dall'altra, ha  ingiustificatamente
limitato l'area della risarcibilita' dello stesso danno a sole  poche
fattispecie delittuose. 
    Ad avviso del Collegio, l'introduzione della limitazione si  pone
come  un'irragionevole  ed   arbitraria   restrizione   alla   tutela
risarcitoria del diritto all'immagine della pubblica amministrazione,
poiche'  questa  e'  concepita  come  circoscritta  unicamente   alla
realizzazione di talune condotte illecite, lasciando privo di  tutela
il disdoro provocato alla p.a. nel caso in cui un proprio  dipendente
e/o amministratore abbia commesso reati, che  pur  caratterizzati  da
rilevante disvalore sociale e tali da arrecare  un  serio  discredito
alla rispettabilita' ed onorabilita' della struttura pubblica di  cui
fanno parte, non rientrino nell'ambito dei reati propri citati. 
    Ne deriva che la norma in esame  si  presenta  in  contrasto  con
l'art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto  il  legislatore
sembra aver violato la clausola generale di «ragionevolezza» che deve
considerarsi limite negativo del corretto  esercizio  della  potesta'
legislativa. Come e' noto, per costante  giurisprudenza  dei  Giudice
delle Leggi, la discrezionalita' del legislatore puo' «essere oggetto
di censura, in sede di scrutinio di costituzionalita',  soltanto  nei
casi di' "uso distorto o arbitrario'', cosi' da confliggere  in  modo
manifesto con  il  canone  della  ragionevolezza»  (v.  ex  plurimis:
sentenza n. 144 del 2005; ordinanze n. 401 e n. 262 del 2005, n.  212
e n. 109 del 2004, n. 292 del 2006 e 23 del 2009). 
    L'arbitrarieta'  denunciata  emerge  ictu  oculi  esaminando   la
disposizione de qua con riferimento al giudizio in corso,  nel  quale
e' ormai preclusa la risarcibilita'  del  danno  dell'amministrazione
dell'Interno per la deplorevole condotta riconducibile  al  reato  di
violenza sessuale e di falso in atto pubblico, commessi da  personale
della Polizia di Stato durante il  servizio  e  negli  stessi  locali
dell'ufficio. 
    Si tratta di una  condotta  che  inequivocabilmente  presenta  un
disvalore di massimo rilievo, tale da provocare, prima ancora  di  un
generico  discredito  dell'amministrazione  pubblica,  una  forte   e
ingiustificata  perdita  di  fiducia  dei   cittadini   nelle   Forze
dell'ordine e, piu' in generale, nelle  stesse  Istituzioni,  poiche'
addirittura  si  presenta  di  pari  -  se   non   di   superiore   -
riprovevolezza rispetto alle condotte configurabill come reati contro
la p.a., per i quali e' ammesso il ristoro della lesione al prestigio
dell'amministrazione. Ed e' irragionevole ed  ingiustificato  che  il
legislatore non abbia previsto in tali casi (rectius, per tali reati)
la possibilita' di esercizio dell'actio damni. 
    Dal che appare evidente  il  vulnus  irreparabile  prodotto  alla
tutela degli interessi della p.a. 
1.3.II. - Violazione dell'art. 24, primo comma della Costituzione. 
    L'art. 24, primo  comma,  dispone  che  tutti  possono  agire  in
giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Ne deriva
che la legittimazione ad agire, essendo riconosciuta a tutti in  modo
indistinto, competa anche alla p.a.  che,  infatti,  e'  titolare  di
diritti ed interessi legittimi da far valere di fronte ai  competenti
organi di giurisdizione. 
    Come e' noto, la tutela dell'immagine della p.a. lesa dai  propri
dipendenti asseritamente «infedeli» e' realizzata innanzi alla  Corte
dei conti per il tramite della Procura  erariale  competente.  Appare
evidente che la norma in esame ponga un grave ed ingiustificato freno
alla tutela giuristizionale dei diritti ed interessi  delta  pubblica
amministrazione,  riconosciuta  in  modo   inequivoco   dalla   Carta
Costituzionale. 
1.3.III. - Violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione. 
    Il citato comma 30-ter, periodo secondo, si pone in contrasto con
l'art. 97, primo comma, della Costituzione, nel quale  sono  dettati,
come   e'   noto,   principi   cui   deve   conformarsi   l'esercizio
dell'attivita' amministrativa: il principio  di  legalita',  di  buon
andamento ed imparzialita'. 
    In particolare, l'art. 17, comma 30-ter, periodo secondo, si pone
in contrasto con il criterio  del  buon  andamento  ed  imparzialita'
dell'attivita' amministrativa. 
    In primo luogo, si osserva che prevedere la risarcibilita' (e  la
tutelabilita') dell'immagine della pubblica amministrazione nei  soli
casi in cui i dipendenti  pubblici  commettano  un  reato  contro  la
pubblica   amministrazione   pone   in   serio    pericolo    l'agere
amministrativo in termini di  efficienza  ed  efficacia  con  stretto
riferimento alla perdita di fiducia che i cittadini  possono  nutrire
nei confronti delle Istituzioni, dando  luogo  ad  una  visione  poco
affidabile dell'amministrazione. In secondo luogo, non  si  puo'  non
ritenere che la presenza di condotte di dipendenti  o  amministratori
pubblici che, sebbene penalmente rilevanti e lesive del decoro  della
p.a., comportino l'irrisarcibilita'  si  pone  in  contrasto  con  il
principio  dell'imparzialita'  dell'agere  amministrativo,  per   gli
evidenti effetti discorsivi  che  cio'  comporta  sull'organizzazione
delta pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta
potenzialita'  operativa  ed  efficienza  nella  cura  dell'interesse
pubblico. 
    Pertanto, tale contestata disposizione, del tutto irrazionale  ed
irragionevole, finisce per minare irrimediabilmente il buon andamento
e l'imparzialita' dell'amministrazione pubblica.